II

LA POETICA ARIOSTESCA NEL «FURIOSO»

Abbiamo visto che una delle tappe fondamentali della storia della critica ariostesca è costituita dall’intervento crociano e dalla famosa definizione dell’Orlando Furioso come poema dell’armonia cosmica; e abbiamo accennato anche ai pericoli di questa formula e alla possibilità di intenderla e svolgerla in senso piú dinamico e mosso. L’«armonia» ariostesca andrà tradotta allora come espressione del ritmo vitale nelle dimensioni di un sopramondo fantastico, e andrà legata di piú all’esperienza concreta del poeta, allontanando cosí ogni possibilità di confonderla con altri atteggiamenti estetici contrari alla natura dell’Ariosto.

Piuttosto che insistere pericolosamente su di una armonia di perfezione in qualche modo immobile del tipo di certa, pure altissima, pittura rinascimentale (come può essere il caso della Scuola di Atene o del Parnaso di Raffaello), occorrerà riconoscere che il poema ariostesco è caratterizzato da un’armonia – se si vuol riprendere la parola crociana – estremamente mossa, dinamica, intensa, ricca, corrispondente al senso stesso della vita, che l’Ariosto cosí profondamente sentiva come appunto una vita libera, spregiudicata, ricca di energie, e capace di sentire al tempo stesso il valore della realtà e quello della fantasia. Un simile riconoscimento ci porterà anche a sottolineare una maggiore aderenza tra l’Ariosto, creatore dell’Orlando Furioso, e la cultura, il sentimento, la storia del suo tempo.

Questa aderenza si realizza soprattutto in un preciso incontro tra la poetica rinascimentale (che va intesa largamente non solo come gusto stilistico e formale, ma come l’insieme organico di idee, di esigenze, di aspirazioni storiche vive nel tessuto di una società letteraria[1]) e la poetica personale dell’autore, maturata attraverso una esperienza vitale e una concreta storia umana, non chiusa in se stessa e isolata, ma aderente, appunto, nella sua individualità, alle richieste storiche del gusto e del sentimento del tempo.

La poetica dell’Ariosto, che mai si è espressa in espliciti trattati teorici, e che non si è quindi mai codificata e fatta norma esterna al momento della realizzazione della poesia (e questo fatto ci rivela già una situazione molto diversa da quella del secondo Cinquecento, quando, con le poetiche di derivazione aristotelica, si imporranno regole fisse e vincolanti), va rintracciata all’interno delle sue stesse opere, all’interno dello stesso capolavoro. Il tessuto del quale ci rivela appunto una direzione di attività ben cosciente e sicura, che fa dell’Ariosto non un narratore senza problemi, non una sorta di sognatore sorridente o di distratto geniale (come appare generalmente all’immaginazione comune), ma un artista tutto teso ad elaborare nella sua poetica personale le premesse di un gusto piú generale, sotto la spinta di una profonda e concreta intuizione della vita.

Qual è il carattere di questo gusto del primo Cinquecento, che cosí originalmente si realizza nell’opera ariostesca? Non potendo qui soffermarci ad analizzare i movimenti culturali del Rinascimento e le tendenze particolari della poetica del tempo, dobbiamo limitarci a sottolineare come le esigenze piú vive e piú storiche di questa poetica, di questa concezione della vita, si riassumevano nella tensione ad un pieno equilibrio fra il senso umanistico della poesia come esaltatrice di valori umani e il gusto della classicità della forma, in una sicura volontà di aderire alle richieste del mondo reale, concreto, da una parte, e del mondo ideale, fantastico, dall’altra. Equilibrio tra naturalismo e platonismo, che alimentava, in letteratura, la tendenza ad un’armonia varia e mossa, ad una serena perfezione carica di vitalità, ad una eleganza non astratta o fine a se stessa, ma ricca di riferimenti alla concretezza del mondo esterno. Insomma il gusto di un’organicità assai complessa, da realizzarsi al di fuori di regole strette e vincolanti, come quelle che invece prevarranno nel posteriore razionalismo del secondo Cinquecento. Nel corso del nostro discorso sull’Orlando Furioso potremo vedere come queste esigenze si realizzano originalmente nel poema, con un accento personalissimo ed inconfondibile.

Se vogliamo ora fermarci un momento a ritrovare nelle opere dell’Ariosto qualche precisa dichiarazione di poetica, che mostri anche esplicitamente la sua diretta e insieme originale aderenza al gusto del tempo, possiamo citare un passo della Satira VI, dove l’autore traccia quasi la sua immagine ideale del poeta:

Ma tu, del qual lo studio è tutto umano

e son li tuoi suggetti i boschi e i colli,

il mormorar d’un rio che righi il piano,

cantar antiqui gesti e render molli

con prieghi animi duri, e far sovente

di false lode i principi satolli [...].

(vv. 49-54)

Qui, a parte la seconda terzina piú cortigianesca, la prima terzina, con la sua netta esclusione di interessi astratti, con l’indicazione del carattere tutto umano della poesia, appoggiato al gusto per la bellezza e la perfezione, chiarisce bene l’accordo profondo della poetica ariostesca col motivo intimo del suo tempo.

Altri spunti di poetica, che ci aiutano ad intendere il valore e il senso di tutta l’attività ariostesca, nei suoi atteggiamenti e nelle sue aspirazioni, si ritrovano nella Satira IV. Dopo aver ricordato luoghi ridenti e armonici

(non mi si può de la memoria tòrre

le vigne e i solchi del fecondo Iaco,

la valle e il colle e la ben posta tórre)

(vv. 124-126)

l’Ariosto afferma però che nessun paesaggio potrebbe permettergli di scrivere poesia se il suo animo non fosse già di per sé sereno:

Ma né d’Ascra potrian né di Libetro

l’amene valli, senza il cor sereno,

far da me uscir iocunda rima o metro.

(vv. 133-135)

L’atteggiamento dell’Ariosto trova dunque il suo centro nell’intimo del concetto della poesia come serenità, che appare come il risultato di un’organica disposizione alla serenità, di una interpretazione serenatrice della vita multiforme e contrastante, che bene si accorda al gusto di assetto armonico, di classico ordine, manifestato qui in quell’accenno cosí preciso e pur cosí sobrio:

e la ben posta tórre.

Questa poetica del «cor sereno» non impedisce all’Ariosto di intuire – come in qualche modo già abbiamo avvertito parlando della sua biografia – alcuni elementi della latente crisi storica e politica che la splendida età del Rinascimento portava già dentro di sé. E, per addurre un esempio, egli seppe molto bene identificarne i preannunci nel momento della calata di Carlo VIII in Italia (1494) e dell’inizio delle guerre di predominio tra i francesi e gli spagnoli:

Troppo fallò chi le spelonche aperse,

che già molt’anni erano state chiuse;

onde il fetore e l’ingordigia emerse,

ch’ad ammorbare Italia si diffuse.

Il bel vivere allora si summerse;

e la quiete in tal modo s’escluse,

ch’in guerre, in povertà sempre e in affanni

è dopo stata, et è per star molt’anni [...].

(XXXIV, 2)

Qui, specie nel quinto verso, che è certo il piú significativo dell’ottava, si presenta con evidenza il senso dell’Umanesimo che vede la rovina della propria splendida civiltà e sembra quasi ridurla ad una morte catastrofica, senza lotta: «si summerse».

Si può ricordare anche, non essendo possibile soffermarsi su molti passi, l’episodio di Cimosco, nei canti IX e XI del poema, in cui si tratta di un personaggio che ha scoperto e adoperato le armi da fuoco, contro le quali l’Ariosto scaglia una sua sincera invettiva:

Come trovasti, o scelerata e brutta

invenzion, mai loco in uman core?

Per te la militar gloria è distrutta,

per te il mestier de l’arme è senza onore;

per te è il valore e la virtú ridutta,

che spesso par del buono il rio migliore:

non piú la gagliardia, non piú l’ardire

per te può in campo al paragon venire.

Per te son giti et anderan sotterra

tanti signori e cavallieri tanti,

prima che sia finita questa guerra

che ’l mondo, ma piú Italia, ha messo in pianti;

che s’io v’ho detto, il detto mio non erra,

che ben fu il piú crudele e il piú di quanti

mai furo al mondo ingegni empii e maligni,

ch’imaginò sí abominosi ordigni.

(XI, 26-27)

Appare quindi evidente che certe scoperte tecniche, come le armi da fuoco, che potevano sminuire il valore individuale, la virtú del singolo, venivano avvertite dall’Ariosto come elementi tali da minare quella civiltà che proprio sulla virtú dell’individuo fondava il suo precipuo valore (e d’altra parte queste scoperte si collegavano proprio al crollo dell’indipendenza degli italiani). È, ripetiamo, una crisi latente, appena avvertita, che solo nel secondo Cinquecento troverà il suo sviluppo piú largo e dolorosamente cosciente.

Ma, al di là della crisi storica e politica del suo tempo, l’Ariosto sentiva anche il fondo doloroso della stessa vita umana, rivelando una intelligenza spregiudicata e profonda della sua irrazionalità (intelligenza non disgiunta mai da quel superiore senso di equilibrio, di misura): si legga, ad esempio, l’ottava introduttiva del canto IV, che trova il suo accento piú alto, dopo un’andatura dinoccolata e come sorniona, nella riflessione finale, nell’ampiezza dei due ultimi versi, che possono essere elevati quasi a modello della complessità pensosa, e pur mai arcigna, sempre pronta a trascolorare nel sorriso (cosí il tono ampio della grande frase: «in questa assai piú oscura che serena / vita», è bonariamente corretto dalla determinazione della causa della tristezza della vita: l’invidia), del senso ariostesco della vita:

Quantunque il simular sia le piú volte

ripreso, e dia di mala mente indici,

si truova pur in molte cose e molte

aver fatti evidenti benefici,

e danni e biasmi e morti aver già tolte;

che non conversiam sempre con gli amici

in questa assai piú oscura che serena

vita mortal, tutta d’invidia piena.

(IV, 1)

Dunque la poetica del «cor sereno» si incontra nell’Ariosto con una visione realistica della vita, che lo accosta, piú di quanto comunemente si creda, al Machiavelli e ai piú acuti moralisti del secolo. Il «cor sereno» non va quindi frainteso nel senso di una serenità ingenua e incosciente: appare piuttosto come il risultato di una esperienza concreta, anche amara, di un superamento e di una accettazione, di un’unificazione, sotto la legge di una suprema organica armonia, di un mondo vario, mosso, ricco di contrasti e di irrazionalità.

Questo è un punto da mettere in chiara luce per capire il valore dell’Orlando Furioso, poema tutto poetico, poema che non ha fini espliciti esterni alla poesia, che non ha da trasmettere un esplicito messaggio – per adoperare una parola ormai un po’ logora, ma ancora in uso nella critica e nel linguaggio corrente – ma che sarebbe molto errato considerare come privo di rapporto con una dimensione storica e con un sentimento della complessità dell’esistenza umana. Avvertendo i primi elementi di una crisi che avrebbe distrutto la civiltà rinascimentale, sentendo con amara coscienza il dolore insito nella stessa vita dell’uomo, l’Ariosto seppe rispondere a tutto questo con la poesia, con la sua fantasia che arricchiva e sosteneva, in un equilibrio supremo di contrastanti elementi, la splendida civiltà di cui egli pure avvertiva le incrinature incipienti, che avrebbero portato alla rottura irreparabile di quell’equilibrio cosí sapientemente raggiunto.

L’Orlando Furioso non è dunque un puro divertimento, anche se l’autore, in una lettera al doge di Venezia (ottobre 1515), poteva dire di avere «cum mie longe vigilie e fatiche, per spasso e recreatione de’ S.ri e persone di animi gentilli e madone, composta una opera in la quale si tratta di cose piacevoli e delectabeli de arme e de amore e desiderare ponerla in luce per solaço e piacere di qualunche vorà e che se delecterà de legerla [...]»[2]. In realtà sotto questo diletto vive, ripeto, una profonda risposta storica, in un sicuro accordo con gli elementi piú intimi, piú intensi della cultura del pieno Rinascimento: l’amore per la bellezza, per la misura, per l’equilibrio, e insieme l’amore per la realtà, in un’organica espressione che sa andare, appunto, dall’esperienza piú concreta e mondana alla creazione di un sopramondo ideale, ma non astratto, non allegorico, naturalistico e platonico insieme. È una fusione perfetta di realismo e idealismo, che va dal gusto delle cose al culto della bellezza perfetta, da una intensa vita sentimentale ad una trasfigurazione altissima: e in questo senso ci rivela la serietà, la profondità, la storicità di questo grande poeta.


1 Per il valore del concetto di poetica, si veda il mio Poetica, critica e storia letteraria, Bari, Laterza, 1963 (ora Poetica, critica e storia letteraria e altri scritti di metodologia, Firenze, Le Lettere, 1993).

2 Lettere, ed. cit., p. 157.